In un mondo complesso ogni approccio settoriale o parziale rivela i propri limiti ad affrontare tale complessità in modo efficace e costruttivo; ogni giorno questa verità è dolorosamente sotto gli occhi di tutti.
Semplificare o voler ridurre a tutti i costi la visione del problema non aiuta a risolverlo, anzi.
Vale invece la pena richiamare una nota affermazione di Einstein:
Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo.
Non accettare di affrontare a viso aperto la dimensione interdisciplinare e trasversale della complessità, significa rinunciare ad una parte consistente della capacità di soluzione del problema e, indirettamente, crearsi ulteriori problemi rispetto a quanti già non ve ne siano sul tappeto.
Ma cosa significa in concreto cambiare livello di pensiero? Significa accettare definitivamente la necessità e l’opportunità di riporre gelosie ed effimere primogeniture, per dare seguito allo sviluppo dell’integrazione tra i diversi settori dell’economia italiana, puntando a valorizzare le singole peculiarità in una logica di sistema e a trasformare le singole specificità in un insieme capace di innovare creativamente, di modificarsi in modo proattivo e di competere ad armi pari, senza snaturare le caratteristiche proprie e del territorio che lo esprime.
Guardare al superamento della crisi economica in atto con la volontà di lasciarla definitivamente alle spalle è possibile, se si accetta come premessa l’idea di non considerare i settori economici disconnessi fra loro ed antagonisti, organizzandosi invece per riuscire a sfruttare le competenze proprie di ciascuno e creare quelle sinergie che risultano essenziali per uscire con slancio dalla stagnazione.
La crisi sta urlando ormai da diversi anni come va rivisto il tessuto che regge il nostro sistema economico, rileggendo, attualizzando ed innovando l’intelligenza collettiva che lo costituisce.
Tra le ragioni endogene delle difficoltà in cui l’economia italiana si dibatte vi sono certamente la poca attenzione all’innovazione di processo, alla valorizzazione del capitale umano, alla predilezione per forme di impresa ad alta intensità di lavoro, al presidiare il mercato con marchi propri e sistemi distributivi efficaci.
Questa prospettiva non è semplice da realizzare per un’economia molecolare caratterizzata da vasi scarsamente comunicanti e da culture organizzative poco propense al cambiamento; può invece diventare molto più praticabile se immaginiamo imprese e professioni stabilire stretti rapporti di partnership e non mere relazioni per la fornitura di servizi amministrativi o burocratici.
Lungi da essere due mondi separati, addirittura in competizione come vorrebbero le più cieche interpretazioni del lobbismo più spinto, impresa e professioni costituiscono la trama e l’ordito della tela economica del nostro paese.
Una tela appunto da rinnovare, consolidare e integrare per riuscire a reggere il passo nel confronto con i nuovi paradigmi del lavoro e dell’economia e rilanciare la competitività ed il benessere.
Mai come in questo periodo le imprese hanno bisogno delle professioni e viceversa; le professioni possono garantire alle imprese l’introduzione di innovazione essenziale per rivedere prodotti e processi, per migliorare sistemi e modalità organizzative, per aggiornare il ventaglio di conoscenze e competenze disponibili.
Tutto questo è particolarmente importante se si considera che la maggior parte delle imprese ha dimensioni assai ridotte e una micro-impresa molto difficilmente potrebbe entrare in contatto in modo strutturato con l’innovazione, se non attraverso la medesime relazione che già le assicura servizi amministrativi e tecnici di natura obbligatoria.
Il capitalismo molecolare, proprio del nostro paese ed a lungo esaltato (piccolo è bello), ha l’esigenza di rinnovare con convinzione il patto con le professioni, senza inseguire modelli stranieri lontani da consuetudini e vocazioni territoriali, ma valorizzando concretamente le peculiarità positive presenti nella cultura del lavoro e dell’impresa e risolvendo superandoli i gap di sistema che ci hanno aiutato a sprofondare in questa crisi.
Le professioni hanno grande bisogno delle imprese per portare a compimento il complesso processo di trasformazione e rilettura del proprio ruolo economico e sociale; i professionisti possono garantire un’offerta tanto qualitativamente più rilevante, quanto più le imprese sono in grado di stimolarli con una domanda di servizi innovativa e sfidante. Dal canto loro i professionisti si debbono impegnare a rileggere il proprio ruolo, alla luce di una nuova complessità da affrontare, potenziando le competenze tecnologiche e la capacità di fare rete, riuscendo a garantire alle imprese non solo lo zoccolo di servizi amministrativi e tecnici, ma anche una costante iniezione di competenze e know-how in grado di supportarne le scelte strategiche, commerciali e gestionali.
Anche il ricambio generazionale gioca un ruolo importante, in termini simbolici oltreché concretamente operativi.
I giovani con il loro bagaglio di competenze naturalmente innovative, ma soprattutto con l’approccio mentale e culturale aperto che possono mettere in campo, costituiscono naturalmente una potenziale spinta innovativa per tessere la nuove trama e ordito, nella consapevolezza di quanto sia necessario collaborare per poter competere e di quanto questo passaggio sia indispensabile per dare una reale opportunità alle nuove generazioni, per non dover gestire un faticoso declino e per contrastare le pericolose polarizzazioni verso cui si sta orientando la società europea.
Condivido tutto ciò che hai espresso e lo sottoscrivo. Credo, però, che per evitare che tali orientamenti restino ad esclusivo (quanto inutile) beneficio intellettuale di quei pochi (ahimé!) che li colgono, occorrerebbe un grande “movimento di opinione” che ne diffonda le prassi. Mi spiego meglio: “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo.”……diceva Einstein e tu, giustamente, in conclusione del tuo post, fai riferimento alle nuove generazioni “con il loro bagaglio di competenze naturalmente innovative, ma soprattutto con l’approccio mentale e culturale aperto che possono mettere in campo”. Molto semplicemente, chi ha usato il pensiero in maniera tale che esso creasse un problema, difficilmente potrà adottarne uno diverso affinché il problema creato vada a soluzione. Ma, purtroppo (ancora, ahimé!), anche le nuove generazioni non saranno mai completamente “nuove” se le competenze “naturalmente innovative” magari da un punto di vista tecnico, non incrocerranno un “pensiero innovativo” che le aiuti ad imporre diverse relazioni orientate alla cooperazione, alla ricerca e alla innovazione (di pensiero, prima ancora che di prodotto e di processo). Non ci può essere cambiamento se l’eredità culturale è caratterizzata dall’immobilismo.
E allora: formazione!, formazione!, formazione! E, insieme, analisi di esempi, di esperienze, di buone prassi, che orientino i professionisti, ma anche gli imprenditori, nonché i rispettivi collaboratori/dipendenti verso un nuovo modo di fare relazioni sociali/produttive/industriali/culturali. Proprio nel rispetto del principio da te enunciato, occorre che si creino rapporti sinergici tra professioni e mondo imprenditoriale, con un nuovo spirito di cooperazione che abbia (perché no!) la capacità di incidere sulla politica, affinché le norme agevolative non riguardino più soltanto la retorica e la banalità delle assunzioni tou court (anche invocarle è un deprimente simbolo di stagnazione culturale), ma un modo diverso di fare impresa e professione. I benefici, certamente, non sarebbero immediatamente quantificabili con calcoli aritmetici, ma la benefica progressione geometrica sarebbe verificabile nel tempo.
Caro Claudio, io sto lavorando anche per questo. Certamente servono bravi maestri, tanti e non pochi, vicini ai giovani.
Al Festival del lavoro si è parlato anche di questo, davvero molto bello.
Si continuerà alla Summer School.
Ciao Andrea, è un pò che non commento purtroppo a causa di impegni lavorativi e non.
Vorrei sottolineare che oltre a condividere la tua opinione in merito alla fusione delle competenze e delle professionalità, quello che effettivamente riscontro sia nelle vecchie che nelle nuove generazioni è la mancanza di mentalità imprenditoriale. La tua tesi regge se dall’altra parte c’è l’imprenditore, inteso nel senso di colui che è capace di organizzare coordinare e soprattutto fare le scelte, oltre ad avere i capitali e le conoscenze della materia, ma questo è altro discorso.
Noi assistiamo ad un impoverimento della classe dirigente, e il confronto con persone più capaci o con vedute più ampie diventa sempre un problema di gelosia. Gli imprenditori attuali, ma anche molti professionisti, si ritrovano dove sono perchè qualcuno li ha messi li, quindi cercano con tutte le loro forze di difendere il proprio operato e la propria poltrona, nessuno accetterebbe di buon grado il tuo ragionamento, ammesso che lo capiscano.
Buon lavoro