
Mi hanno invitato ad intervenire in un convegno il cui tema è il lavoro, il suo futuro, i problemi che lo affliggono.
Ok, che c’è di strano?!
In fondo io … lavoro con il lavoro e dunque ritengo di poter dare un contributo da due diversi punti di vista, quello tecnico, che riguarda le procedure che regolano i rapporti di lavoro, e quello organizzativo, che fa riferimento alla relazione quotidiana fra azienda e dipendente.
Come sempre, quando si tratta di impegnare il tempo altrui, mi pongo il problema di farlo in modo utile, per loro e per me.
Credo che il tema lavoro si possa affrontare da alcuni diversi punti di vista, ma mi pare di cogliere che in sottofondo esistano delle schizofrenie ancora non risolte:
Le regole
In un’epoca in cui la parola d’ordine è semplificare, mai le norme sono state tanto complesse, intricate e confuse, quasi fossero frutto di un disegno diabolicamente razionale.
E parlando di regole non intendo solo le leggi; magari!
Per far funzionare il farraginoso armamentario normativo servono infatti decreti, regolamenti, circolari, messaggi, interpelli, sentenze, pareri, ecc., che complicano le cose e ritardano spesso di molti mesi la reale entrata in vigore della norma stessa.
Concorrono a rendere nebulosa la cornice anche i contratti collettivi nazionali e di secondo livello (territoriali, aziendali, individuali), che intervengono in modo diversificato a regolare i fatti e gli eventi che si verificano normalmente nella vita aziendale.
Basti pensare alle differenti normative regionali ed ai ritardi che per anni hanno imbrigliato l’apprendistato e ne hanno reso inutilmente complessa l’attivazione, così come alle differenti modalità per l’attivazioni di tirocini rivolti ai giovani.
E come dimenticare che anche le procedure informatizzate per il collocamento possono variare da regione a regione?
Come se questo non bastasse, i problemi si acuiscono anche perché la stesura di norme e contratti non avviene in modo organico, ma attraverso un continuo e frammentato aggiornamento e sostituzione di parti di testo, che a lungo andare non agevola di sicuro la linearità e l’omogeneità del dispositivo, rendendone di fatto poco agevole la comprensione certa e l’applicazione.
Chi si occupa di lavoro (professionisti ed aziende) si trova dunque a doversi districare fra un groviglio di norme e precetti che a vario livello convivono con difficoltà e fatica, complicando il lavoro a chi vuole operare correttamente e offrendo il fianco a coloro che invece cercano scorciatoie e sotterfugi.
Queste regole e la loro formulazione costituiscono oggi un grande limite, ma influenzeranno anche il futuro, perché causano un dannoso rallentamento degli sforzi per uscire da una crisi, che in realtà si è rivelata un cambiamento epocale e irrinunciabile, per affrontare il quale serve slancio, non laccioli.
Il sistema delle regole, assieme a quello dell’istruzione e della formazione, costituisce una fondamentale infrastruttura per il mondo del lavoro; oggi questa infrastruttura si rivela obsoleta, rabberciata, inefficiente. Fino a quando vogliamo mantenerla tale?
La tecnologia
Il nostro tempo si confronta sempre più con la tecnologia, che ha inciso e continuerà a modificare sempre più il nostro modo di vivere e di lavorare, affrettando il cambiamento dei comportamenti delle imprese e dei rapporti di lavoro.
Si parla di lavoro agile grazie all’evoluzione delle tecnologie ICT, che rimuovono barriere temporali e logistiche, ma aprono parimenti la riflessione su nuove forme di monitoraggio e controllo del lavoratore, potenzialmente sempre tracciato in ogni momento della sua vita, oltreché del lavoro.
Il ministro Poletti ha definito più volte l’orario di lavoro “un morto che cammina”, mentre i vincoli esistenti rendono di fatto impraticabile qualsiasi forma di flessibilità reale, basata sul risultato e non meramente sulle ore lavorate.
La meritocrazia fatica a trovare spazio in un panorama che da tempo ha decretato il livellamento verso il basso, a scapito di impegno personale, responsabilità e partecipazione.
Ne è un esempio lampante la scarsissima percentuale di organizzazioni e di PMI, che oggi dispone di un reale sistema di valutazione delle performance individuali e collettive e di un programma di incentivazione coordinato.
Il presidente INPS ha affermato pochi mesi or sono che il primo asse su cui INPS vuole migliorare è utilizzare al massimo le opportunità che ci offre la digitalizzazione, la comunicazione via telematica per stabilire un rapporto diretto con il mondo delle imprese, disintermediare questo rapporto. Le imprese non devono più necessariamente dover ricorrere a degli intermediari.
Oggi viviamo una realtà assai distante da questo “sogno”, con l’aggravante che l’interlocuzione con l’istituto è divenuta quanto mai complessa e lenta, per non dire impossibile, posto che sono state chiuse le tradizionali linee di dialogo reale, sacrificandole sull’altare di una mal interpretata digitalizzazione delle relazioni.
Negli ultimi anni la PA ha realizzato di fatto un’enorme esternalizzazione in termini di data entry sui propri archivi nei confronti dei professionisti, riuscendo in questo modo ad aggiornare i propri archivi in tempo reale, senza però saper valorizzare questa situazione con un’offerta di servizi efficienti, veloci e certi, anche in termine di monitoraggio tempestivo dei comportamenti irregolari.
Immaginare una tecnologia capace di gestire senza intervento umano l’attuale complessità della normativa è irrealistico; la strada da intraprendere è certamente quella della digitalizzazione, ma senza che i costi del progresso ricadano esclusivamente sui “soliti noti”.
Il lavoro
Siamo figli di una storia che distingue fra capitale e lavoro e li vuole duellanti ogni giorno l’uno di fronte all’altro, in un’eterna lotta di vittorie e sconfitte a somma zero, che hanno di fatto inchiodato verso il basso la produttività, limitato l’espressione dei talenti ed il riconoscimento del merito
Lo smart working (quasi una metafora del cambiamento) si propone come una dimensione nuova del rapporto di lavoro, dove di fatto il venir meno della subordinazione spaziale e temporale contribuisce a rendere attuali assetti organizzativi, che offrono spazio alla valorizzazione della performance del dipendente, avvicinandolo al lavoratore autonomo per quanto riguarda i comportamenti organizzativi.
Appare chiaro che un’azienda che decida di sviluppare il proprio modello di business servendosi dello smart working debba dedicare una particolare attenzione a condividere un patto di fiducia con il proprio personale, che sostanzialmente ridefinisca vincoli e diritti reciproci, anche per quanto attiene elementi cardine del rapporto di lavoro subordinato tradizionale, quali il potere di direzione e controllo o l’obbligo di fedeltà e riservatezza ed il cui focus è ora rappresentato dalla performance ottenuta dal lavoratore.
Un nuovo modo di intendere il lavoro è possibile? Non so, so però che è necessario, come è assolutamente indispensabile risolvere l’eterna ed anacronistica dicotomia fra lavoro subordinato ed autonomo.
Il lavoro è uno solo e rappresenta un diritto/dovere per ogni cittadino.
L’articolo analizza in modo puntuale la situazione. Personalmente le nuove tecnologie piacciono, ma hanno diffuso l’idea che “tanto basta un click”.
Buon pomeriggio Dott. Pozzati,
Lei conclude il suo interessante articolo evidenziando in grassetto che la dicotomia tra lavoro subordinato e autonomo è anacronistica e va risolta, e che il lavoro è uno solo e rappresenta un diritto/dovere per ogni cittadino.
Non condivido queste sue riflessioni finali in quanto non riesco a non considerare che:
– Il divario reddituale tra ricchi e poveri in questi ultimi decenni si è sempre più allargato in tutto il pianeta tanto è vero che siamo sconvolti da flussi migratori epocali;
– In particolare in Italia registriamo i redditi da lavoro dipendente trai più bassi d’Europa;
– Le quotazioni in borsa delle Aziende salgono regolarmente quando vengono annunciati tagli del personale;
– La mobilità sociale, specialmente in Italia, negli ultimi decenni registra preoccupanti rallentamenti e quindi se sei figlio di un operaio o di un piccolo artigiano é probabile che non riuscirai a migliorare di molto la tua posizione;
– Qui da noi esistono ancora gli Albi professionali alla faccia delle opportunità e del libero accesso al mercato del lavoro;
– Sempre più giovani Italiani sono costretti ad emigrare se vogliono sperare in una vita/carriera lavorativa dignitosa che non sia ostaggio dei vari baronati che sono ben consolidati nel nostro bel paese;
– Abbiamo il tasso di disoccupazione giovanile trai i più alti d’Europa;
– Potrei continuare ma mi fermo qui ……………
In poche parole quando si parla di lavoro secondo me bisognerebbe anche porsi il problema di capire cosa sono diventate le vite delle persone che lavorano (subordinati / parasubordinati / piccoli artigiani che siano) e porsi la domanda se non sia il caso di operare per recuperare terreno in tema di “giustizia sociale”.
Poi certamente si può parlare di “regole” di “tecnologia” e appunto di “lavoro”, ma per favore ricordiamo che come dice il detto popolare “il pesce grosso mangia quello piccolo”.
Grazie per gli spunti di riflessione che continua ad offrirci.
Stefano Piron
Beh, in poche parole penso che senza il lavoro autonomo non esisterebbe quello subordinato.
I cattivi comportamenti ci sono in entrambi, non solo nel lavoro autonomo, anche per questo ogni tanto, sarebbe bene tagliare, anche se spesso non lo si fa.
Non le pare?
Grazie per l’attenzione Stefano!