Quando la resistenza al cambiamento diventa “graffiante”

Mi sono spesso soffermato, in queste pagine, sull’importanza che assume la narrazione, all’interno delle dinamiche di un’organizzazione, privata o pubblica essa sia.

Le parole, come ben si può capire, concorrono a dare forma e corpo all’ambiente in cui si vive e lavora, soprattutto quando sono ricorrenti o addirittura martellanti, anche se pronunciate a mezza voce.

Rimanendo in tema di chiacchiere e narrazioni quotidiane, gran parte della resistenza al cambiamento viaggia proprio attraverso un sottobosco di parole dette e non dette, spesso travisate o, addirittura, inventate con l’obiettivo di limitare, bloccare e contrastare l’evoluzione, senza però il coraggio (o la voglia) di dialogare apertamente ed in modo costruttivo palesando le proprie ragioni e rendendosi disponibili ad un confronto costruttivo.

Di metterci la faccia, insomma!

Gestire il cambiamento. Non sempre semplice, ma possibile, anzi, quasi sempre doveroso. Gestire il cambiamento richiede, in primo luogo, di creare un momento in cui si marchi un discontinuità. Chiaramente, la discontinuità non sempre verrà apprezzata e spesso neppure accettata con riserva; da qui derivano le prese di posizione (spesso aprioristiche) in contrasto più o meno aperto. Esse contribuiscono ad aumentare l’attrito, di per sé proprio di ogni evoluzione.
Riconoscere e accettare la discontinuità deve essere una azione sviluppata non attraverso la costrizione, ma sulla base di un coinvolgimento che lavori sulle emozioni di chi sarà chiamato ad interpretare il cambiamento.
Il processo, insomma, si gioca sulla faccia e sulla partecipazione degli attori che lo propongono, sulla loro credibilità e sulla capacità di sviluppare un rapporto di fiducia con chi viene coinvolto.

Una volta avviato il percorso va condotto, presidiato e gestito con continuità. Le cose si complicano se la leadership si mostra cauta; il buon senso del procedere per gradi, senza voler lasciare nessuno indietro, può essere mal interpretato e scambiato per tentennamento; questo contribuisce a rafforzare le posizioni critiche, a ringalluzzire i contrari che non si sforzano di comprendere che è proprio per attenzione verso di loro che il leader non “affonda” l’acceleratore organizzativo.

Insomma, una questione di leadership; che in questo caso sta nel pesare bene la propria indulgenza nei confronti dei collaboratori che si mostrano indisponibili al cambiamento.

Molti imprenditori, manager e professionisti sanno affrontando con coraggio e determinazione la situazione attuale, progettando cambiamenti per accrescere gli orizzonti e aumentare produttività e qualità. Innovare e implementare: non è facile inventare il cambiamento, ma non lo è neppure convincere il personale a modificare atteggiamenti e comportamenti organizzativi.

Spesso vi sono remore da parte a lavorare sulla propria squadra, soprattutto quando questa non dimostra di apprezzare la cosa.
Certamente il leader non può immaginare che la sua “brillante idea” o il suo “bel programma” vengano accolti come una rivelazione; anzi, cambiare è faticoso e spesso questo è l’aspetto che viene colto da chi non se ne sente soggetto, ma solo oggetto.

Tre semplici pro-memoria:

  • spiegare chiaramente il progetto, cercando di essere convincenti, coinvolgenti e facendo sempre attenzione alle parole dette e ascoltate, intervenendo subito qualora si avvertano interpretazioni erronee o fuorvianti della comunicazione effettuata;
  • illustrare chiaramente ad ogni persona cosa si vuole da lei e perché, quanto eventualmente oggi il suo modo di lavorare sia distante dalle attese, cosa sia necessario/utile per superare il gap attuale e quali strumenti vengano messi a disposizione per farlo.
  • Una volta fatto questo, con chiarezza e metodo, ricordare e ricordarsi che in un’organizzazione tutti sono utili ma nessuno è indispensabile e che è possibile condurre un cammello alla fonte, ma non è possibile obbligarlo a bere.

Grazie per l’attenzione e forza!

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